“La vita ci spezza tutti. Solo alcuni diventano più forti nei punti in cui si sono spezzati”. Ernest Hemingway
In fisica e in ingegneria la parola resilienza indica la capacità di un materiale di resistere a un urto senza spezzarsi, assorbendo l’energia che può essere rilasciata dopo la deformazione.
Tale termine è stato successivamente preso a prestito dalla psicologia, in particolare nell’ambito delle esperienze traumatiche, per indicare la trasformazione di una sofferenza di una persona, di un popolo che subisce una ferita profonda, che attraversa una tragedia e che tramite un lungo processo ne trae un cambiamento profondo, che può diventare modello di speranza anche per altri.
I disturbi psicotraumatici presentano manifestazioni simili in qualunque cultura e società : ansia, irritabilità , orrore, ricordi e ambienti che riattivano la sofferenza o modalità di comportamento difensive. Una variabile importante è costituita dalla qualità dell’evento traumatico: a differenza di una catastrofe naturale, si soffre molto più a lungo e si fatica a perdonare una ferita inflitta da un altro essere umano.
Tuttavia la possibilità della persona di poter stare alla giusta distanza dalla sofferenza – senza rifiutarla e senza esserne travolta – e il sostegno affettivo offerto dalla società possono portare all’avvenimento traumatico e doloroso quella luminosità propria dell’accoglienza e del significato.
La lotta interiore dell’individuo.
Di fronte alla situazione traumatica, alla perdita, alla mancanza, alle avversità dell’esistenza si fanno strada diverse strategie che si muovono tra due polarità : il crollo e la spinta di gravità .
Ci si può far schiacciare dalla sofferenza, trascurare la cura di sé fino all’indifferenza o costruirsi una carriera di vittima. Queste sono modalità antiresilienti perché bloccano la crescita della persona e non consentono una reale integrazione del trauma.
All’opposto, possiamo metterci in relazione con la sofferenza, iniziare a guardarla, sospendere il giudizio ripetitivo, esercitare comprensione e compassione, fino ad utilizzare in maniera ampia la spinta creativa che ha il suo seme nell’evento avverso e può diventare, con il tempo, progetto sociale e culturale.
Concedersi il diritto di soffrire, osservare la propria ferita, farla respirare attiva un percorso di guarigione. Affezionarsi alla ferita, scambiarla per la nostra identità , corrisponde alla tendenza ad affezionarsi alla pietra che ci ha fatto inciampare. La ferita, la “cicatrice” rappresenta solo una parte del nostro percorso, mentre il lavoro creativo che mettiamo in atto sulla nostra cicatrice ci permette di renderla “ricamo”.
Il gruppo può promuovere od ostacolare la resilienza.
Un gruppo, una comunità può facilitare od ostacolare l’elaborazione di un trauma: i pregiudizi familiari e culturali portano all’isolamento e all’abbandono dell’individuo, mentre l’ascolto profondo e la solidarietà forniscono la possibilità di modificare la rappresentazione della tragedia e una riorganizzazione della vita del ferito. Quindi, la presenza o l’assenza di azioni di supporto possono dare impulso o bloccare un processo di resilienza. In particolare, tra le azioni di supporto va segnalato l’impegno di trasformare la cozzaglia di eventi tragici in una narrazione dotata di senso.
Se la famiglia, il gruppo accetta l’uomo, la donna nella sua totalità e quindi ha la capacità di stare anche con la lacerazione della persona ferita, allora il processo di resilienza ha inizio. Diversamente, se i congiunti e la cultura costringono l’individuo ad esprimersi solo con le parti che riescono a tollerare, la vita si svolge a metà , mentre l’altra metà rimane segreta, seppellita, senza possibilità di trasformazione.
Tra i fattori protettivi presenti nella ricerca compare soprendentemente la capacità di humour che intercorre tra la persona ferita e il gruppo di appartenenza. Lo humor consiste nel saper cogliere, in una situazione carica di sofferenza, gli aspetti ironici, divertenti, paradossali. Questa modalità sottrae il soggetto, anche solo per qualche istante, dalla fascinazione dell’orrore, introduce un po’ di leggerezza, permette di cambiare prospettiva, fa nascere una speranza. La capacità di condividere una situazione umoristica rivela inoltre la vicinanza affettiva tra le persone (B. Cyrulnik, 2009).
Conclusioni
La resilienza non è il raggiungimento del successo, ma è la narrazione di una dura lotta e di un ritorno alla vita. La forza della resilienza non è il significato che si raggiunge, ma la ricerca di significato, che richiede un lavoro quotidiano, regolare, fatto di emozioni piacevoli e dolorose, aperture e richiusure, ottimismo e delusioni, ma che consente via via di passare da un cammino incerto e pericoloso alla conquista di passi dotati di maggior sicurezza, solidità ed agilità .
BIBLIOGRAFIA Cyrulnik B. (2009), Autobiografia di uno spaventapasseri. Strategie per superare le esperienze traumatiche, Cortina, Milano.